Chief Happiness Officer

Chief Happiness Officer: chi è, cosa fa, perché è importante

Dal Welfare al Welbeing: sembra essere questa la nuova sfida dei Direttori del Personale. Diverse aziende statunitensi, in testa Google, hanno già previsto nel loro organigramma la figura che dovrebbe occuparsi di garantire la felicità sul posto di lavoro: lo Chief Happiness Officer.

Nella recente pubblicazione dei risultati di un sondaggio effettuato presso alcuni grandi aziende di tutto il mondo, l'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara che la depressione oggi rappresenta la seconda malattia al mondo: l’87% dei lavoratori nel mondo sono demotivati; il 13% dei dipendenti, una sparuta minoranza, si sente fiducioso di poter raccontare senza timore un problema di tipo personale al proprio capo; il 25% vorrebbe cambiare lavoro; il 26% dei dipendenti ha l’ansia di rientrare il lunedì; soltanto il 20% si sente adeguato al lavoro; il 66% dei millennials è convinto di aver fatto la carriera sbagliata; il 91% dei manager sembra essere consapevole di manifestare un'incoerenza di fondo tra i principi del "trattare bene i collaboratori" e i loro comportamenti effettivamente messi in atto; il 75% dei collaboratori attribuisce a queste "bad practices" dei manager la causa di ambienti infelici.

Se a ciò aggiungiamo poi gli effetti sicuramente non particolarmente incoraggianti della pandemia, è chiaro che, in tale contesto generale, negli ambienti di lavoro gli indici di fiducia, partecipazione e motivazione sono in picchiata, e che c’è un aumento progressivo della perdita di senso professionale.

Chi è il Chief Happiness Officer, e quali sono le sue mansioni

È in questo scenario di crisi globale che si fa largo la figura del Chief Happiness Officer: job position al momento sconosciuta nelle nostre imprese ma che sembra essere diventata un valido supporto per alcune organizzazioni.

Ma vediamo un po’ più da vicino il CHO: il cosiddetto " manager della felicità", colui il quale dovrebbe:

  • valutare il livello di benessere dei lavoratori in un'organizzazione;
  • studiare strategie, misure ed azioni per migliorare l'ambiente di lavoro, al punto tale da rendere più motivati e produttivi i dipendenti, in altre parole, di renderli felici sul posto di lavoro;
  • occuparsi, anche se non in modo esclusivo, di sviluppo organizzativo ed accompagnare, come vero e proprio influencer, la crescita positiva di persone e team per la realizzazione del potenziale e del benessere.

Quali sono i vantaggi di occuparsi della felicità dei dipendenti sul posto di lavoro

In realtà, alcune grandi aziende americane con Google, ancora una volta a fare da capofila (ma da menzionare anche Kiabi, Zappos e McDonald's), hanno dimostrato che occuparsi della felicità degli employers, significa poi nei fatti apportare altresì sensibili miglioramenti al bilancio aziendale e non solo, ovvero:

  1. abbassare i costi ed incrementare l'efficienza nel breve periodo. Secondo fonti autorevoli (vedi Forbes e l'Harvard Business Review), il costo di un dipendente infelice è stimato circa 16k euro all’anno tra minore produttività e spese sanitarie. È stimato invece che una organizzazione attenta all'happiness riduce rispettivamente del 66% e del 51% gli episodi di malattia e degli indici di turnover;
  2. ampliare ricavi e profitti ed essere più efficaci nel medio periodo. Nelle organizzazioni con la presenza del CHO, le persone si relazionano positivamente, si sentono felici e ottengono risultati individuali e collettivi che superano le aspettative. Come segnala ancora l'Harvard Business Review, in tali organizzazioni si evidenziano importanti fattori di crescita nei tradizionali KPI: aumento delle vendite (+37%), aumento della produttività (+31%), maggiore capacità di innovazione (+300%), migliore retention (+44%);
  3. rigenerare fiducia e valori, non sono a favore dei dipendenti, ma anche dei clienti e degli altri stakeholder, per un futuro eco-sostenibile nel lungo periodo. Le best practices sull'happiness in azienda alimentano una cultura positiva e valori di rispetto, inclusività e coerenza con effetti crescenti sul benessere personale, relazionale e organizzativo. In tal modo si ricrea engagement e retention, e, di conseguenza, l’azienda diventa a tutti gli effetti un "happy place to live".

Chief Happiness Officer, a cosa serve e perché è importante

Ovviamente, come per tutte le innovazioni, si leva, soprattutto dalle nostre parti, qualche perplessità e pregiudizio al riguardo. Se però volgiamo il nostro sguardo indietro, e nemmeno troppo, ci accorgiamo poi che, ad esempio, il welfare manager è oggi una realtà consolidata, anche se fino a dieci anni fa era praticamente inesistente nell'organigramma di una Direzione Risorse Umane delle nostre aziende.

Il riconoscimento dell'importanza del CHO viene confermato da diverse ricerche nel mondo; a tal proposito, cito il Global Report Human Resource (novembre 2020), che ha coinvolto oltre 7000 lavoratori nel mondo, dando come risultato che l’87% degli intervistati è favorevole all’idea di un “Responsabile della Felicità”. Felicità Lavoro

Quali competenze deve avere il manager della felicità: le sue skill

Degno di nota in Italia, è l'Istituto ILPO (Italian Institute for Positive Organizations) che certamente fa da precursore al diffondersi della cultura dell'Happiness Management, con il rilascio di una certificazione del Chief Happiness Officer, focalizzata su 8 competenze chiave:

  1. Strategic thinking & positive future planning: la capacità di comprendere il nesso tra i principali trend economici, politici, tecnologici, ambientali e socio-culturali e le politiche di gestione e sviluppo delle persone e dell’organizzazione positiva;
  2. Organization epigenetics: la capacità di intercettare i principali modelli culturali dell’organizzazione e scegliere quali incentivare e quali disattivare coerentemente da quanto previsto dalla scienza della felicità;
  3. Evolutionary cultural change: la capacità di costruire una cultura eco-sistemica e di implementare modelli di comportamento congruenti;
  4. Self Science: la capacità di coltivare il proprio Sé e la propria felicità – allineando propositi, valori, bisogni – e di definire un piano di azione orientato al benessere per poter ispirare ed essere un esempio coerente;
  5. Positive leadership development: la capacità di definire, promuovere ed implementare un piano di sviluppo della Leadership Positiva diffusa a tutti i livelli dell’organizzazione;
  6. Positive practices strategies: la capacità di selezionare e implementare le pratiche e gli strumenti per generare benessere e positività verso collaboratori, clienti, fornitori, investitori e stakeholders;
  7. Positive organizational management: la capacità di analizzare, ridefinire, misurare e monitorare i principali processi di gestione delle persone definiti dalla happiness@work;
  8. Happiness @work strategy: la capacità di definire un piano strategico per portare nelle pieghe dell’organizzazione la scienza della felicità, influenzando così cultura e processi organizzativi, in grado di produrre risultati misurabili e positivi sul bottom line.

Risulta quindi chiaro che per ricoprire tale incarico in un'azienda occorrono solide capacità professionali, sorrette da un'importanza esperienza nel settore HR (in particolare, nell'ambito dello Sviluppo Organizzativo), e soprattutto spiccate caratteristiche personali di orientamento al cambiamento ed alla trasformazione culturale delle organizzazioni.

Il passaggio pertanto da una cultura di welfare ad una di welbeing, e l'individuazione di profili adeguati in grado di formulare e dare concreta applicazione alla Vision dell'"Happiness is here", rappresenterà per molte Direzioni Risorse Umane, non solo nel nostro Paese, la vera sfida del futuro: si accettano scommesse.

Un articolo a cura del dottor Riccardo Iozzi, docente del Master in Gestione, Sviluppo e Amministrazione delle Risorse Umane, ed esperto dalla grande esperienza nel mondo HR

 

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