La giustizia italiana può affidarsi agli algoritmi?

La giustizia italiana può affidarsi agli algoritmi?

L’intelligenza artificiale (IA) è l’insieme di metodi, teorie e tecniche che tendono a riprodurre, attraverso calcoli e algoritmi, le capacità cognitive degli esseri umani, con l’obiettivo di far eseguire alla macchina compiti complessi precedentemente svolti dall’uomo, risparmiando tempo e denaro.

Si è recentemente sviluppato anche in Italia un acceso dibattito riguardo alle opportunità e ai limiti all’impiego dell’intelligenza artificiale in ambito legale, in particolare nell’ottica della c.d. giustizia predittiva, cioè della possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite l’ausilio di sistemi di calcolo e algoritmi.

L’applicazione dell’Ia in funzione predittiva, se da un lato costituisce un’opportunità da valorizzare per migliorare l’efficienza e la qualità della giustizia, dall’altro suscita perplessità e impone cautele rafforzate specialmente in un settore “sensibile” quale quello della giustizia penale, dove sono in gioco interessi e valori che coinvolgono la tutela dell’individuo, primo fra tutti il bene della libertà personale.

L’Italia e la IA

Nel nostro ordinamento l’ipotesi di utilizzare algoritmi predittivi in ambito penale deve fare i conti, allo stato, con alcuni ostacoli normativi.

1. L’algoritmo non può motivare

Un primo limite è costituito dal principio fondamentale stabilito dall’articolo 111 della Costituzione, in base al quale “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Motivare significa dare conto del percorso logico-giuridico adottato dal giudice nel risolvere “quella” determinata controversia in un modo piuttosto che in un altro, o nel decidere se assolvere o condannare “quell”’imputato.

Gli algoritmi funzionano bene con riferimento a procedure seriali o standardizzate, che implicano l’elaborazione e l’acquisizione di dati certi ed oggettivamente comprovabili, sottratti all’apprezzamento discrezionale. Ma la standardizzazione e la “spersonalizzazione” delle decisioni prodotte tramite algoritmi sembra mal conciliarsi con il rispetto dell’obbligo di motivazione, il quale non può prescindere dal riferimento al singolo caso “umano” preso concretamente in esame dal giudice.

2. La pericolosità dell’imputato non è prevedibile

L’adozione nel nostro sistema di un algoritmo predittivo come Compas, finalizzato a determinare la pericolosità di un individuo e quindi il rischio di recidiva criminale, trova un impedimento difficilmente superabile nel divieto posto dall’articolo 220, comma 2, del codice di procedura penale, secondo cui “non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche“.

3. La fondamentale questione della privacy

L’idea che una decisione giudiziaria (tanto più quando sia destinata a incidere sul bene supremo della libertà individuale) possa scaturire dall’applicazione di algoritmi suscita perplessità e impone cautele anche sotto il profilo della compatibilità con le norme europee sul trattamento dei dati personali (Regolamento europeo n. 679/2019 – noto come Gdpr).

È il problema della cosiddetta “profilazione”, cioè di quella che il Gdpr (art. 4) definisce come “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica”.

A questo proposito l’articolo 22 del Gdpr stabilisce che l’interessato ha il diritto “di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona“. Questi sono i principali limiti normativi che impediscono, allo stato, l’utilizzo di algoritmi predittivi in ambito penale.

È però facile prevedere – lo scenario è anzi inevitabile, data la crescente diffusione dell’Ia nei più svariati ambiti delle attività umane -, che il legislatore porrà mano ad un graduale adeguamento dell’apparato normativo, per integrare formule e tecnologie che, prima o poi, diventeranno standard. Il punto cruciale è il come.

Intanto, sui limiti all’applicazione di algoritmi nel settore penale rimandiamo all’analisi approfondita pubblicata su Altalex in un articolo dal titolo “Algoritmo e giustizia predittiva in campo penale”, mentre a chi volesse saperne di più riguardo alla profilazione e alle implicazioni e rischi per la privacy derivanti dai trattamenti automatizzati di dati personali consigliamo la lettura della voce enciclopedica “Profilazione”.

 

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