Riposo compensativo per falsa attività elettorale, sì al licenziamento

Riposo compensativo per falsa attività elettorale, sì al licenziamento

Il contributo si sofferma su una recentissima pronuncia della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (sentenza 23 gennaio 2018, n. 1631) che ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente che ha usufruito di un permesso per riposo compensativo presentando un falso certificato inerente allo svolgimento di attività elettorale, in realtà mai effettuata. Ad avviso degli ermellini sussiste la proporzionalità tra tale tipo di illecito disciplinare e la sanzione espulsiva.

 

Legittimo il licenziamento comminato dall’azienda a un suo dipendente per aver presentato un certificato che attestava falsamente lo svolgimento di attività elettorali lucrando il diritto a un giorno di riposo compensativo, poi effettivamente fruito.

 

La Corte di cassazione, sentenza n. 1631 di martedì 23 gennaio, ha così accolto, con rinvio, il ricorso della FCA Melfi contro la decisione della Corte di appello di Potenza che invece aveva disposto il reintegro del lavoratore per violazione del principio di proporzionalità.

Il dipendente si era reso disponibile a prestare attività lavorativa sabato 10 aprile, avvertendo che sarebbe stato impegnato, quale rappresentante di lista, nei giorni di domenica 11 e lunedì 12 aprile. Successivamente però presentò un falso attestato di partecipazione alle attività elettorali il sabato, maturando l’agognato giorno di riposo compensativo poi fruito mercoledì 14. Per la Corte territoriale il comportamento era inquadrabile come «mera giornata di assenza ingiustificata». Per la società invece il giudice di secondo grado ha omesso di considerare l’obiettiva riconducibilità di tale comportamento «ad un fatto così grave, anche per il suo rilievo penale, da non consentire prosecuzione neppure provvisoria del rapporto».

Motivo accolto dalla Suprema corte secondo cui «è pacifico che il dipendente, pur non avendo svolto alcuna attività elettorale, consentita dall’ordinamento (Dpr n. 361/57), il giorno 10 aprile, consegnò all’azienda un certificato (o attestato) da cui risultava invece falsamente, falsità di cui non poteva evidentemente non rendersi conto, tale attività, chiedendo ed usufruendo pertanto illegittimamente di un giorno di riposo compensativo». «Tale comportamento – prosegue la Corte – non può ricondursi ad un mero disguido o confusione sulla data di rientro al lavoro, come ritiene la sentenza impugnata, né ad una mera assenza ingiustificata, ma al consapevole uso di un attestato falso al fine di usufruire di un riposo compensativo non spettante». Tale ipotesi è «certamente ricomprensibile nel concetto di giusta causa previsto dalla legge», né tantomeno è «contraddetto dalla contrattazione collettiva che non disciplina affatto con minore sanzione (conservativa) simile fattispecie, tanto meno l’art. 10 del c.c.n.l. disciplinante solo le assenze ingiustificate».

La sentenza, conclude la Corte, va dunque cassata «per aver considerato unicamente il dato fenomenico dell’assenza ingiustificata, senza valutare affatto il principio che il consapevole utilizzo di un falso certificato al fine di poter godere, peraltro in un momento di dedotto maggior bisogno lavorativo per l’azienda, di un giorno di riposo non spettante, può concretare il concetto di giusta causa previsto dall’art. 2119 c.c.*, derogabile in melius solo ove una specifica norma contrattuale collettiva preveda espressamente simile caso come foriero di meno grave sanzione».

 

*Articolo 2119 del Codice Civile: Recesso per giusta causa

Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente.

Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.

 

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