La sfida della salute digitale secondo Bertrand Bodson, Chief Digital Officer di Novartis

La sfida della salute digitale secondo Bertrand Bodson, Chief Digital Officer di Novartis

La tecnologia stimola oggi più che mai la ricerca sui farmaci. Gli obiettivi, migliorare l’accesso alle cure e offrire servizi che vadano “oltre la pillola”;

 

Nuovi farmaci disponibili con tempi record. Costi di produzione (e quindi prezzi) più bassi. Ma anche un approccio alla cura inteso non solo come la prescrizione di un medicinale, bensì come un servizio che possa migliorare l’esperienza del paziente a 360 gradi. È a questo che punta il mondo della ricerca farmaceutica oggi, nel suo momento di maggior contatto con la rivoluzione digitale. Il potenziale delle nuove tecnologie, collocato poi nell’era dei dati, è anche qui enorme, anche se i nodi da sciogliere sono ancora tanti rispetto ai settori per i quali big data, intelligenza artificiale (ma non solo) hanno già rappresentato una svolta epocale.

Cosa significa la rivoluzione digitale per un’azienda farmaceutica in generale e in particolare per Novartis?

“Nel caso delle aziende farmaceutiche, la rivoluzione digitale si gioca tutta attraverso la combinazione di tecnologia, dati e scienza. Al momento ci vogliono 12 anni e 2,5 miliardi di dollari, in media, per portare un nuovo farmaco sul mercato: queste tre grandi forze in gioco potrebbero portarci, spero al più presto, a rendere accessibili le nostre scoperte ai pazienti in maniera più rapida. Un altro ostacolo da superare è quello finanziario. Il ritorno dei capitali investiti si è ridotto radicalmente negli ultimi dieci anni, e questo grava anche sui pazienti, che devono far fronte a costi non indifferenti per curarsi. È grazie a dati e tecnologia che oggi possiamo pensare di accelerare il processo di estrazione di valore delle nostre operazioni e ottimizzare la gestione della spesa. Infine, c’è l’aspetto produttivo, cioè come rendere più efficiente la macchina. Abbiamo purtroppo ancora molti procedimenti paper-driven, per esempio, o manuali, e c’è quindi tanto spazio per l’innovazione anche qui”.

Lei ha lavorato anche per Amazon. Quali sono le somiglianze e le differenze tra un’azienda come questa e una realtà farmaceutica? 

“Sono entrato a Novartis all’inizio del 2018 – da neanche un anno – e questi interrogativi li ho vissuti in prima persona. Arrivavo da un altro settore, quello del retail, una realtà che ha già affrontato questo tipo di trasformazioni, e da subito mi è parso chiaro che qualcosa di grosso stesse succedendo anche sul fronte della salute. Lavorando per Amazon e per alcuni dei suoi competitor, potendoli osservare da dietro le quinte e confrontandomi ogni giorno con le operazioni di leader del digitale come Google e Microsoft, devo dire che i segnali di un cambiamento anche sul versante healthcare sono evidenti. La stessa Amazon si stava già facendo strada sul terreno della distribuzione farmaceutica con l’acquisto di PillPack, per esempio.”

“La cosa che porto con me dall’esperienza ad Amazon è sicuramente il focus assoluto sulla customer experience, un approccio che ti permette di creare davvero quello che si chiama Nps, cioè Net Promoter Score, che è una vera e propria misura della customer experience. Sul piano delle farmaceutiche, lo stesso approccio ti fa capire quanto sia importante la costruzione di community di pazienti, dove le persone possano trovare aiuto e supportarsi a vicenda”.

Nella relazione con i pazienti, le società si sanno spostando dall’approccio di vendita di farmaci a quello di fornire soluzioni e servizi. Novartis sta investendo in questa direzione?

“Sì, lo facciamo, lo vediamo come un’amplificazione dell’offerta rispetto al semplice farmaco. In Germania, per esempio per i pazienti che hanno avuto un infarto, abbiamo avviato delle interfacce bluetooth attraverso le quali il paziente viene monitorato e che segnalano automaticamente all’operatore sanitario di competenza se c’è un problema e come mettersi in contatto, permettendo di avere sotto controllo la situazione. Su questo fronte abbiamo stretto un accordo con una nuova azienda, la Pear Therapeutics. In questo caso il servizio non è solo un’estensione del farmaco, bensì un suo completamento. Per i pazienti con disturbi legati all’abuso di sostanze, come i tossicodipendenti o gli alcolisti, per esempio, l’attuale standard of care consiste nella prescrizione di tre mesi di terapia e una visita ogni tanto. E se poi subentrano delle crisi? In quest’ottica ci siamo aperti a collaborazioni con imprenditori e smart startup e abbiamo sviluppato (e stiamo sviluppando) diverse app, una delle quali già approvata dalla Fda”.

Di che app si tratta? E come funziona?

“Si chiama re-Set, ha dimostrato di raddoppiare l’efficacia sui pazienti con problemi di abuso rispetto alla sola terapia farmacologica ed è in fila per la commercializzazione. Una volta prescritta, potrebbe recapitare direttamente al paziente la terapia digitale, per esempio quella cognitivo-comportamentale, attraverso lo schermo dello smartphone o in versione desktop. Non necessariamente assieme ai farmaci, ma anche in monoterapia. Un approccio che ha potenziale in un vasto range di problemi di salute. È solo un esempio, ma se dovesse funzionare richiederà un approccio completamente rinnovato: il medico dovrà raccomandare un’app e non un farmaco, tanto per cominciare, e il paziente dal canto suo si chiederà dove siano le sue pillole. Non si tratta quindi semplicemente della cura, bensì di dare vita a un nuovo ecosistema. Serve una nuova educazione, oltre che a tecnologie che siano adatte ai pazienti e capaci di raccogliere e comunicare dati in tempo reale.”

“Sono molto felice di muovermi in questo contesto. C’è molto spazio per la ricerca e si va oltre al provvedere allo sviluppo di un farmaco tradizionale: è ripensare la gestione della cura, che va incontro alle esigenze del paziente, ovviamente, ma che si muove in un contesto tecnologico nuovo ed estremamente disruptive”.

Come sta gestendo Novartis questi diversi know-how

“Sono un grande fan della partnership e penso che la maggior parte di queste cose non possiamo farle da soli. È per questo che collaboriamo con gli sviluppatori delle migliori app e molti startupper. Ci poniamo domande su come trattare gli imprenditori come clienti, come costruire ambasciatori dell’innovazione all’interno della società e come dare loro accesso ai dati. C’è poi tutto il discorso sulla formazione interna. Abbiamo creato il Digital Awareness Lab dove abbiamo chiesto ai partner, ma anche ai 120mila dipendenti di Novartis, di collaborare attraverso la condivisione di video ed esperienze. Abbiamo contenuti su Internet of Things o sulla blockchain, e uno degli obiettivi e demistificare di cosa si tratta, spiegare che non è solo una cosa da nerd o da geek, ma che siamo tutti coinvolti in prima persona.”

“Abbiamo anche assunto ex dipendenti Google per imparare a gestire grandi moli di dati. Prendiamo ad esempio una delle nostre nuove medicine, Cosentyx, un farmaco contro la psoriasi: grazie alla gestione di tutti questi dati, possiamo trovare tutte le informazioni relative ai pazienti che lo assumono, se ne hanno tratto beneficio in modo diverso, tutti aspetti che non avremmo mai potuto scoprire altrimenti. Così come diventa possibile studiare nuove combinazioni di farmaci che potrebbero essere efficaci, e individuare nuovi biomarker che possono anticipare se una persona è predisposta o meno verso una malattia.

“Insomma, si lavora a più livelli, da quello puramente biologico a quello imprenditoriale, passando per quello culturale e di demistificazione”.

Nel complesso, qual’è la portata degli investimenti in digitale?

“Tutte queste tecnologie ci hanno portato alla soglia di rivoluzioni su larga scala e rapide. Come Novartis, investiamo 10 miliardi all’anno in ricerca e sviluppo – il più alto investimento di cui sono a conoscenza – con un approccio estremamente imprenditoriale. Le farmaceutiche hanno sicuramente bisogno dei migliori gruppi al lavoro sul fronte dell’informatica, dell’Ia e dei dati. Chi vuole farsi avanti, si faccia pure avanti.

 

 Fonte: Wired

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